Orixás oltre i confini …

Molto spesso la religione è usata come una bandiera.

Un grande panno colorato da sventolare ma anche in cui avvolgersi per trovare protezione.

Ci definisce, ma può chiuderci entro linee di confine rigide.

Ricordo un’amica che si era fidanzata con un indiano; lui si professava ateo ma aveva sul comodino una deliziosa statua di una divinità, che la madre gli aveva dato perchè lo accompagnasse durante un importante viaggio di studi (nel quale avrebbe conosciuto questa ragazza, di diversa cultura e religione).

Lei un giorno si prese la statuetta (tanto lui era “ateo”) e la portò a casa dei suoi genitori. Sua madre ne fu terrorizzata: sarà che la figlia si stava convertendo all’induismo? Già se la immaginava con abiti colorati e un puntino sulla fronte.

Una mattina la statuetta venne trovata decapitata.

Il colpevole non fu mai individuato: si disse che, certamente, era accidentalmente caduta dalla mensola su cui era appoggiata.

Il rischio (inesistente) di “conversione”, venne così scongiurato.

Un’altra amica giramondo si trovava dalle parti di New York quando si innamorò di due penetranti (islamici) occhi neri che si muovevano con disinvoltura nel più affascinante e collaudato dei melting pot.

Tutto bene, ma solo a New York. 

L’amore non poteva essere portato oltre confine.

Ne ricordo un’altra che ha litigato, fino alla rottura, sullo sposarsi con rito cristiano cattolico o cristiano ortodosso.

Avrei altri esempi di barriere culturali mai sfondate, ma preferisco raccontare una storia di apertura: quella del candomblé.

Vi consiglio di partire dalla lettura di un romanzo di Jorge Amado, quello in cui Oyá si incorpora in una statua di Santa Barbara per andare a liberare una sua figlia, ingiustamente e tristemente costretta in un ambiente borghese e perbenista.

Quando finalmente, dopo un susseguirsi di esilaranti eventi, l’ordine è ristabilito e il percorso di vita della ragazza riallineato al suo odu (destino) per cui, con buona pace di tutti, la figlia di Oyá è libera di danzare in un terreiro di candomblè, non si verifica una rottura tra il prima e il dopo.

La ragazza non smette di essere ciò che era (nata in una certa famiglia, con una sua diversa cultura e religione) ma, semplicemente e felicemente, diventa libera di essere tutta sè stessa.

Il candomblé è una storia di apertura.

Gli schiavi dovettero superare i confini tra le loro regioni e le loro tribù, facendo sopravvivere i loro orixás in un unico pantheon che non esisteva in Africa.

Costretti al cattolicesimo, in molti lo abbracciarono, senza mai smettere di credere negli orixás.

Fino a non molto tempo fa era comune terminare l’iniziazione con la benedizione del prete cattolico, in chiesa.

Ancora oggi il rituale funebre dell’axexé quasi sempre precede il funerale in chiesa.

Sono tantissime le persone che arrivano al candomblè da percorsi di vita svariati e che non smettono di essere ciò che erano prima: però aggiungono a ciò che già erano, la capacità di attingere energia da una risorsa spirituale interiore di cui ignoravano l’esistenza.

Il candomblè è una storia di apertura e di completamento.

Apertura alla propria interiorità, accesso alla propria energia, completamento del cammino spirituale.

Gli orixás non conoscono confini, soprattutto quelli della nostra mente e del nostro cuore.

Axé.

Fucsia, il fiore della libertà: quella di varcare i propri confini e trovare sé stessi.

Fucsia, il fiore della libertà: quella di varcare i propri confini e trovare sé stessi.

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